Memorie sfaldate annue


Francesca Woodman - Senza titolo. Roma,
Settembre 1977. Dalla serie "Angels".
Muoversi da una stanza all’altra, incessantemente. E poi fermarsi per ancora riprendere. Dentro casa, sempre dentro casa. Con la temperatura che cambia come le stagioni. I rumori sono incessanti. Il ventilatore non vale niente, muove aria su aria, sempre la stessa. Spifferi fastidiosi, meglio tenerlo spento. E poi i film. Passo tutto il giorno a guardare film e a leggere libri.

Oggi, per esempio, vedrò La mia droga si chiama Julie di François Truffaut, con Jean-Paul Belmondo e Catherine Deneuve. Coppia di sfigati. Lei fine, carina, traditrice. Mi farà venire in mente Carla, anche se Carla ha delle tette più modellate, scultoree nella sua struttura delicata.

Gliel’avevo detto a Vincenzo, in modo vago, senza far nomi, ma oggi mi andrà di far nomi e romperò quella regola strettamente osservata nei confronti delle mie ex quando vado sui particolari. Mi verrà voglia di telefonare a Carla, ma bisognerà finire di vedere il film, perché non mi andrà di chiamarla in presenza di Vincenzo. Vorrò dirle parole gentili, del tipo "sento molto la tua mancanza", "sei così bella", "spero che tu stia bene", "che fai in questi giorni?", "ti voglio bene!".

È da ieri che le volevo telefonare. M’è venuta in mente di notte, con una gran voglia di toccarla, ma non mi andava di chiamarla così tardi. Volevo chiamarla oggi, nel pomeriggio, ma poi verrà Vincenzo e faremo lezione di inglese, ossia conversazione, parlando dei mondiali e dello stupido articolo di Fumaroli su democrazia e retorica pubblicato ieri sul Corriere delle Sera. Con Vincenzo mi metterò d’accordo per un pagamento mensile delle lezioni, così se non verrà per qualche motivo ci rimetterà lui. Una soluzione adeguata che accetterà: magari si impegnerà un po’ di più e l’inglese lo imparerà davvero.

Chiamerò Carla a Parma in serata, ma sarò meno giulivo, sarò anzi nervoso, molto nervoso. Mi accenderò una sigaretta e mi schiarirò la voce. Non mi andrà di farmi sentire triste, vorrò farle sapere che sto bene e che tengo molto a lei. Ma purtroppo la voce mi si irrigidirà e dovrò schiarirla e deglutire un paio di volte. Dentro casa c’è sempre il fumo, specialmente quando vengono degli ospiti, e quando non c’è il fumo c’è lo smog e il caldo che vengono da fuori.

Al telefono mi risponderà Mariella, la zia acquisita di Carla, ossia l’ex moglie del fratello di suo padre. È sempre molto simpatica, una persona tranquilla, che cerca di prendere la vita con filosofia, occidentale o orientale poco importa, tanto gli uomini veri non furono mai fatti per tali schieramenti. Mi dirà al telefono: "Ti libereranno presto? Devi venire a trovarci. Quasi un anno fa eri qui, ricordi? Il 2 agosto!"

Infatti lei è nata il 2 agosto, e lo scorso anno abbiamo festeggiato il suo compleanno con Carla e un amico di Mariella venuto in Italia per pochi giorni da el-Faiyûm, per salutare da una città all’altra alcuni cestisti italiani. Tanto che è passato per Monteverde, dove doveva incontrare un altro allenatore. Il mondo è piccolo, ho pensato apprendendo dell’arrivo del nuovo ospite, ecco qui un egiziano che viene a casa di Mariella dal quartiere in cui abito!

Quella sera di quasi un anno fa abbiamo cenato con la mentuccia raccolta nei campi, un po’ di insalata e qualche leccornia (fragole, macedonia, chi lo ricorda più?). Poi ci siamo messi intorno al fuoco all’aperto, a chiacchierare. Il fuoco lo abbiamo acceso io e il ragazzo egiziano (dico ragazzo, benché abbia dieci anni più di me). Sono bravissimo a fare la legna e accendere il fuoco. L’ho sempre fatto, fin da bambino, in Emilia, e poi al lago del Turano, quando campeggiavamo con un paio di tende e attraversavamo il lago in canoa. Ogni sera, verso le sei, mentre Alice preparava la cena presso le tende, salivo per le agili mulattiere intorno al lago e cercavo la legna meno fresca, solitamente di cerro, e tornavo alle tende ad accendere il fuoco che ci teneva compagnia fino a notte tarda.

Lì a Parma un anno fa, intorno al fuoco per quasi tutta la notte, era stato piacevole. Mariella aveva ricevuto in regalo delle carte indiane, credo dei Dakota, e ce le aveva lette. Bisognava chiudere gli occhi e immaginare davanti a sé un percorso che conduceva a una tenda, descrivere il percorso e quello che si vedeva dentro la tenda. A me uscì la carta della Grande Madre, la più importante del mazzo. Mariella mi disse di cercare la femminilità che era in me e che attraverso la femminilità che era in me avrei raggiunto il mio obiettivo. "Devi fidarti della tua femminilità" mi disse. La cosa mi fece piacere, tanto che ci pensai anche in giorni molto distanti da quella notte.

È importante riconoscere la propria femminilità. È una ricchezza ulteriore. Scardina le figurazioni della mascolinità indotta. E poi a me piace sempre stare con le donne. Non ricordo che feci con Carla quella notte, ma credo che facemmo l’amore. Forse immaginai di fare l’amore con un’altra donna, non perché non mi piacesse Carla, ma perché Carla diventa spesso dura e spinosa con chi la circonda, e anche con me. Sì, immaginai di fare l’amore con un’amica di Mariella che avevamo incontrato al mattino. Carla non si accorse di niente, e in seguito ricordò quel giorno e quella notte come un momento particolarmente felice, in cui ero "rilassato e tranquillo", così disse, e mi sentì molto vicino. Non le balenò nella mente che mentre ero fra le sue braccia avrei desiderato essere in quelle dell’amica della zia.

Stasera, prima di telefonare a Carla, la penserò indifferente. Lei mi ha detto tante volte di amarmi, ma non credo sia vero, perché credo che non possa esserci amore in una persona che non si fida ciecamente di chi dice di amare. Un bambino si fida ciecamente dei genitori e li ama. Se manca la fiducia vien meno anche l’amore. Non è una questione di passione, ma d’un sentimento ideale, in cui non esiste la diffidenza. Carla non si fida di me, sospetta sempre ch’io stia tramando qualcosa nei suoi confronti, come se volessi rubarle un pezzo d’anima o tradirla, e diventa avara. Allora usa il proprio corpo con strategia, non con amore. Ne fa dono senza anima e se lo riprende, a seconda del mutevole giudizio che ha di sé, dissimulando anche la passione e l’affetto e reprimendo i suoi desideri più pregevoli. Il suo decidere come fare l’amore si fa tattico in quei momenti, non passionale, addirittura non intimo. Mi piace molto quando ride, scherza, mette in gioco se stessa. Mi dispiacciono le sue ubbie, le sue ansie, la sua rigidezza, la sua diffidenza. Come può pretendere di essere amata e di amare se non si fida, se mi teme, o anche se solo teme di perdermi? Passa dall’estrema generosità all’avarizia, dalla grazia all’ineleganza più sciatta. Splende come il sole e la luna e si fa di fango, improvvisamente. In questo non è diversa a tante coetanee che hanno letto qualche libro e rimuginato qualche ora di troppo sul senso della vita.

Una volta vedendola particolarmente tesa le ho chiesto che problemi avesse.

"Non ho nessun problema" mi ha risposto.

"Nessuno non ha nessun problema!" ho replicato.

"Beh, io non ne ho" ha ribattuto.

"Non è possibile che tu non abbia alcun problema. I problemi, piccoli o grandi, ce li abbiamo tutti!" le ho detto.

"Ti ho detto che non ho nessun problema, e non ho nessun problema!"

"Ma è normale avere problemi!"

"Io non ne ho!"

"Senti, due sono i casi: o tu hai dei problemi che non mi vuoi dire oppure sei una persona anormale e quindi piena di problemi."

"Ma perché vuoi farmi essere anormale: io sono normalissima!"

"Secondo te sei normalissima. Infatti non ti accorgi neppure che non avendo alcun problema sei anormale. Solo le persone piatte, scialbe, non hanno problemi! E se credi davvero di non aver problemi dimostri proprio di aver più problemi di chi riconosce di averne pochi e di poco conto! Se non hai problemi non hai neppure aspirazioni, il che in un’artista è un controsenso."

Mi aveva indispettito, e ancor più per il fatto che si fosse chiusa come un riccio. Vedendola sulla difensiva provavo pietà per lei. Non intendevo offenderla, ma farle del bene. Volevo che capisse che non ci si deve nascondere dietro un dito, negando le proprie debolezze come se un lupo cattivo fosse pronto a sbranarle il ventre scoperto. Vedendola così offesa, cambiai subito atteggiamento, sapendo che era inutile proseguire quell’arida discussione. Le dissi "vieni qui" con dolcezza, e lei mi si accostò sul letto e l’abbracciai, baciandole la fronte e le guance.

"Ti voglio bene" le dissi "non intendevo ferirti, volevo solo aiutarti. Ma se mi dici che non hai problemi è meglio così." Era cambiata in un attimo. Le spine le erano cadute di dosso ed era tornata morbida e calda e amorevole.

Carla è una ragazza selvatica. Una volta pensavo che fosse una selvaggia. Invece no: è proprio selvatica, senza l’articolo indeterminativo di chi appartenga ad un gruppo. Una selvaggia ha costumi da selvaggia, una sua socievolezza boschiva che alla lunga uno impara a comprendere. Basta capirne le regole essenziali. Lei no. È come un animale a cui stai bene se le dai latte, amore e fantasia, se presti ascolto alle sue storie che non sa raccontare, se ti rendi in qualche modo partecipe di quello che fa. Ma appena l’abbandoni diventa nuovamente randagia, oltre a mostrare il proprio randagismo anche quando non la abbandoni. Tratta male i tuoi conoscenti se non le sono simpatici, mostrando aperta indifferenza nei loro confronti. In parte, a ben vedere, con alcuni di loro fa bene. O, per essere più precisi, con alcune.

Una volta siamo andati a una festa a Parioli. Lei veniva direttamente dal Centro, mentre io ero arrivato alla festa da Monteverde. Stavo con alcune amiche (alcune ragazze che allora credevo fossero delle amiche) e ci scherzavo fra un bicchiere di vino e una fetta di frittata. A un certo punto, mentre stavo seduto per terra a chiacchierare con tre di queste ragazze, è arrivata Carla. Eravamo in una camera da letto affollata in una casa dal corridoio affollato che dava su altre camere da letto e cucina parimenti affollate. Credo che solo il bagno non fosse affollato. Quando ho visto Carla mi sono alzato per darle un bacio e le ho presentato le mie amiche, parte delle quali già conosceva. Le ha guardate con indifferenza e gli ha detto con altrettanto trasporto un "ciao" distaccato. Qualcuna ha provato a dirle qualcosa, ma lei l’ha subito congedata con uno "Scusa, sono occupata!" e si è voltata verso un ragazzo con cui si è messa a conversare. Le ragazze sono impallidite.

"È la tua ragazza?" mi ha chiesto una.

"Diciamo di sì" ho risposto.

"Ce l’ha con noi! Che le abbiamo fatto?" ha chiesto un’altra.

"È gelosa! Forse noi siamo di troppo! Magari voleva stare con te!"

"È fatta così, lasciatela stare!" ho risposto.

"Però così non si fa!" ha detto una più deficiente di lei.

"Non sapevo che avevi una ragazza!" ha detto una di loro, dal viso piatto e dai capelli rossi che dimostrava cinque anni buoni meno della sua età. Ma nessuno ha aggiunto nient’altro e abbiamo ripreso a parlare.

Del resto queste ragazze sono delle vere e proprie deficienti. Rappresentano la borghesia più becera romana, una borghesia vacua di figlie di civilisti e giornalisti da strapazzo che fanno comparsate televisive con sigaro in bocca e pose da commedia dell’arte. Studiano letteratura e arte. Hanno viaggiato, eccome! Parlano tre o quattro lingue, ma se ne parlassero una sola per dire qualcosa di sensato non farebbero un soldo di danno. Invece posso immaginare i danni che fanno non solo in Italia, ma anche nei paesi di cui cicaleggiano le lingue. Da questo punto di vista, Carla alla fine non è che abbia fatto così male a trattarle da deficienti. Se fosse un’altoborghese, cosa che non escludo, dato che non so di che estrazione sia, Carla potrebbe dirsi una snob. Quando l’ho conosciuta parlava con il mento sollevato a mio cugino che l’aveva conosciuta all’Accademia di Belle Arti, avvolta in un cappotto che non era in grado di dissimulare pienamente le sue grazie. Era appena tornata da un viaggio in Portogallo, come se un viaggio in Portogallo fosse la vincita alla lotteria di Capodanno o rendesse geniale e spiritualmente ricca una persona. Capirei se fosse stata in Paradiso o fosse scampata a un naufragio, ma un viaggio in Portogallo davvero non lo capisco! C’è gente che crede che viaggiare arricchisca a tal punto da nobilitare. Quando nel 1988 sono tornato dal mio primo viaggio negli Stati Uniti, Maurizio mi ha guardato e ha esclamato giulivo ai miei genitori:

"È uguale a prima! L’America non l’ha cambiato!"

"Che credevi, di vedermi con cappellone in testa e pantaloni da cowboy?" gli ho risposto, e ci siamo abbracciati con l’affetto consueto.

Questa dei viaggi è una sciocchezza. Se se ne fa tesoro non è che lo si debba mettere al collo come se si fosse svaligiata un’oreficeria al Centro. È solo una crescita personale, che conosce il viaggiatore e nessun altro. Men che mai se all’estero uno va a farci il turista.

Dopo due o tre frasette di mio cugino Carla capì che il mento poteva anche abbassarlo. Prima pareva che dovesse andare chissà dove di fretta, poi eccola lì ad ascoltare quello che diceva Gioacchino, il quale all’inizio era stato quasi in silenzio, limitandosi affabilmente a congratularsi del lavoro artistico che Carla andava facendo. Io in disparte, come faccio spontaneamente con chi non mi si fila. Ogni tanto davo un’occhiata ai due, come se non c’entrassi niente nella loro conversazione. Quando se ne andò la congedai con leggero distacco, un semplice ciao e il sorrisino garbato di uno che ha altri pensieri per la testa.

"Chi era?" chiesi subito a Gioacchino.

"Una ragazza dell’Accademia" mi rispose. "Ci avevo buttato gli occhi sopra quando stavo con Monica, ma allora era fidanzata con un altro ragazzo dell’Accademia. Da quello che ho capito, si sono lasciati. Le ho lasciato il mio numero per vedere i miei lavori, se le interessa si farà viva. Secondo me le interessa!"

"E bravo, cuginetto! È davvero carina. In bocca al lupo." E proseguimmo per piazza Farnese.

Non mi sarei mai immaginato che un giorno quella ragazza, piacente e snobbante, me la sarei trovata fra le braccia. Avrei tanto desiderato che fosse un po’ più giuliva e meno scontrosa, ma questo non credo che possa deciderlo io per lei. Del resto, non è che mi sia sempre comportato bene nei suoi confronti. È che speravo che fosse diversa, ecco tutto. Che fosse una gran giocherellona, come sa esserlo a oltranza. Ma a oltranza non va bene, se non nei rapporti occasionali, di tanto in tanto. In un rapporto di coppia è insopportabile.

Stasera, quando proverò a telefonarle, non sarà in casa. Dormirà a casa dei signori dove, come molte artiste squattrinate, fa la baby-sitter. Mariella mi dirà che lo fa di tanto in tanto, come se dovesse spiegarmi perché non torna a casa a dormire. L’ultima volta che l’ho vista, nelle mura della mia segregazione, mi ha detto che c’era un altro ragazzo nella sua vita. E ha aggiunto che era convinta che ne fossi contento.

"Se sei contenta tu…" le ho risposto.

Per la prima volta le ho detto che non sono affatto contento, seppure la cosa possa andare bene a lei. Anzi, da parte mia, sono dispiaciuto. Non tanto che vada con un altro ragazzo (gliel’ho sempre auspicato), ma che non mi ami più. Non mi piacerà perderla, ma al tempo stesso sono cosciente che la mia situazione di segregazione non potrà che alterare ulteriormente il nostro rapporto. Qualunque cose le dirò parrà motivato dalla mia condizione. Lei potrà, per esempio, pensare, e sicuramente sospetterà, che le parli di amore perché sono rimasto solo, abbandonato, senza una donna e senza la possibilità di trovarne un’altra al momento. Non solo avrà tutto il diritto di pensarlo, ma sarà una sciocca se non lo capirà.

Quando verrà qui mi proporrà di curare una mostra collettiva d’arte. Ne parleremo e le dirò che va bene. Stenderemo una prima bozza del programma e ci daremo appuntamento per la volta successiva. Poi finirà questa segregazione, qualche giorno dopo, e lei mi inviterà a Parma dove conviverà con il suo nuovo ragazzo. Rifiuterò e lei si arrabbierà. Dopo qualche sua sfuriata al telefono ci accorderemo di vederci a Roma. Avrò bisogno di un po’ di vacanze al mare, ma saranno più brevi del previsto. Tornerò a Roma quando vorrà lei, finché ci incontreremo qua, in questa casa che non avrà più il sapore della nostra dimora né di nulla: sarà un luogo anonimo e freddo, come quando ci si incontra nella piazza di un quartiere anonimo o in un bar che non ha alcun carattere proprio. Vi sarà un’atmosfera tesa e lei si arrabbierà, mi dirà che ho avuto tutto nella vita e chi ha avuto tutto nella vita pretende sempre di più. La pregherò di abbassare la voce e di calmarsi. Mi dirà che non si può lavorare insieme come se fra noi non fosse successo niente. Le dirò che da parte mia non noto la differenza. Mi seguirà di stanza in stanza urlando la sua rabbia. Le dirò che per come stanno le cose è forse il caso che trovi qualcun altro con cui lavorare. Mi dirà che già lo sapevo, che non avevo nessuna intenzione di lavorare con lei. Traccerà sempre di più un solco profondo fra di noi. Continuerà a urlare e rifiuterà di comunicare. Pretenderà, come mai ha preteso fino ad ora. E siccome sarò stanco di non farmi capire e di dover sentire le sue lamentele inurbane, la inviterò a lasciare questa casa e mi metterò a lavare i bicchieri in cucina. Lei rimarrà per un istante di là, poi si affaccerà in cucina e mi chiederà con la sua consueta formalità di aprirle la porta.

"Sai come aprirla" le risponderò stanco "non mi interessano le formalità."

"Beh, allora ciao…" dirà fra l’esitante e il deciso.

"Addio" le risponderò guardandola dal lavabo.

"Ci vediamo…" farà lei.

"Non ci vediamo più" le dirò, con le braccia sotto l’acqua corrente del rubinetto.

"Ci vediamo invece" dirà lei contrariata "queste cose non si dicono".

"No, invece. Non desidero rivederti" le dirò.

"Invece ci vediamo…"

"Ti prego di non telefonarmi" le dirò amareggiato. "Mi farei altrimenti negare."

Se ne andrà in silenzio da questa casa inespressiva costruita per mero denaro. E non ci sentiremo più per tutto l’anno seguente. Saprò, la prossima primavera, che aspetta un bambino, e mi brilleranno gli occhi a pensarla con un bimbo fra le braccia, mentre sfreccerò con la macchina sotto gli archi latini. Avrò un grande desiderio di incontrarla, così per caso, un mattino o un pomeriggio in città. Ma fra un anno, di sera, verrò a sapere, nella stessa cucina in cui l’avrò vista per l’ultima volta, che avrà perduto il bambino. Un brivido grigio come la morte mi attraverserà la schiena e un’amarezza mi crescerà dentro. Tentennerò un paio di giorni. Poi mi ricorderò chi sono, e che non si risponde all’indifferenza con l’indifferenza se si hanno pensieri gentili. Cercherò di sapere come sta, ma senza chiamarla direttamente, per non aggiungere inquietudine ulteriore alla sua eventuale inquietudine. Mi diranno che sta meglio e che si è rimessa già all’opera, caparbia più di prima, con mostre in programma e altre iniziative, e che potrei chiamarla direttamente, con gentilezza. Sarò contento di saperla tranquilla e di non dovermi offrire per lenire le sue recenti ferite. Per un po’ preferirò sapere di lei senza contattarla, come gli angeli sanno essere silenziosi e invisibili e presenti. Vi sono modi e modi per costruire il futuro su un presente crollato. Alcuni sollevano le stesse pietre, altri ne traggono di nuove dall’umana risorsa che ha lavorato per millenni per noi. Io non solleverò le vecchie pietre, ma ricorderò il loro antico splendore: ogni tanto mi sorprenderò a immaginarla amabilmente incazzata con il mondo o ridente e giocosa come un clown, con un dente in meno nella bocca che non si sarà decisa a farsi rimettere, e quel corpo magro e scultoreo, fatto di nervi tesi sotto la pelle delicata, fatto di energia contenuta in posture e irruente ilarità, la bocca assetata di tenerezza e i seni artistici che la dichiarano madre. Mi riempiranno nella memoria le palme delle mani e mi ricorderanno, di tanto in tanto, quanto mi sarebbe piaciuto essere padre.

Lei non sarà una ragazza come un’altra, come se fra noi non fosse successo niente, anche se dovesse smettere di sbattersi a destra e a sinistra nelle scalinate pendule della vita, tentando di rimanere in piedi nelle folate di sbieco dei giorni e delle settimane, con indosso il cappottone lungo, largo e sbiadito che ha soccorso la sua povertà, il viso bello, altezzoso e duro di sempre, alla ricerca di qualcuno che capisca quanto è in gamba: come se essere in gamba basti a rimanere in piedi o a essere felici. A modo loro, nella memoria, i suoi occhi saranno sempre sereni e curiosi come quelli di una bambina e i lineamenti induriti dal giorno si rilasseranno fra le mie braccia, gonfiandole le guance e il mento. Per sempre si stringerà a me per sentire meno freddo e mi guarderà, mentre le sue dita si divertiranno a disegnare figure con i miei riccioli, non per i millenni artistici a venire, ma per quel solo istante che appare degno di attenzione, entro quattro mura scalcinate e intime che non conoscono segregazioni né i famelici volti digrignanti dei boia che, come tutti i violenti della storia, attesero, attendono e attenderanno dietro le porte delle dimore degli uomini. Per un po’, almeno, Carla e io ci ignoreremo.

Roma, 1999

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[riferimento editoriale:
D'Ugo, Nicola, "Memorie sfaldate annue", in Calendario Lippiello 2000, Roma 1999.]